Capitolo 1
Mamma e papà mi avevano cresciuta nel lusso, donandomi tutto ciò di cui avessi avuto bisogno. Persino uno di quei castelli che si vedono nelle fiabe, arroccato su una collinetta di origine morenica con le quattro torri cilindriche ai lati e un immenso giardino adorno di serre e fontane millenarie. La mia educazione era stata molto rigida. Trascorrevo intere giornate sui libri seguita da insegnanti privati, studiavo greco e latino, parlavo quattro lingue, due volte la settimana ero impegnata con le lezioni di violino, suonavo il pianoforte, andavo a cavallo, seguivo corsi di dizione e portamento.
Tutto questo dall’età di cinque anni.
Per compensare le fatiche cui ero periodicamente sottoposta e di cui ne erano più che consapevoli i miei genitori mi sommergevano di regali. Abiti, borse, scarpe, gioielli. Il giorno del mio diciottesimo compleanno ricevetti in dono un anello, uno splendido diamante da diciotto carati appartenuto alla mia bisnonna. A vent’anni una lussuosa proprietà risalente al Seicento, a ventuno un’elegante imbarcazione di trenta metri di lunghezza. Senza contare le numerose automobili che si erano avvicendate nel corso degli anni, l’ultima delle quali una fiammante Maserati Grancabrio utilizzata forse tre volte.
Gli altri preziosi regali li dimenticai nel tempo.
Avevo un parrucchiere personale e un truccatore che trasformava il mio viso per le occasioni speciali. Ero circondata ventiquattro ore su ventiquattro da personale addetto alla cura della mia persona, oltre a una mole senza fine di inservienti, autisti e chef che cucinavano per me le pietanze più prelibate. Il motivo di tanta ricchezza? Appartenevo a una famiglia di nobile lignaggio. Ero la figlia secondogenita del Granduca d’Umbria, tale Fernando Adalberto Gherardini Corterossa, diretto discendente della casata dei Granduchi di Toscana. Mio padre, per il suo titolo, meritava l’appellativo di Sua Altezza Reale.
In Italia e all’estero era conosciuto e apprezzato per le sue innumerevoli qualità. Uomo di classe dotato di incredibile cultura, grande diplomatico sempre in prima fila per la difesa dei diritti umani prendeva spesso parte a sontuosi ricevimenti. Io lo seguivo in ogni sua trasferta, come da suo preciso volere. Mi portava con sé ovunque andasse e questo aveva fatto sì che molti quotidiani esteri iniziassero a parlare di me. Più volte ero stata definita “la bellissima duchessina italiana dallo sguardo malinconico”. Papà non riusciva ad accettare un simile appellativo rivolto alla mia persona e a un certo punto mi obbligò a sfoggiare sorrisi radiosi. Sempre, in ogni circostanza, indipendentemente dall’andamento del mio umore. Ma è risaputo: puoi mentire con le labbra, ma non con gli occhi. Io, dentro, avevo un fuoco che bruciava. Una fiamma incapace di sfogare il suo ardore. Avevo tutto quello che una ragazza della mia età potesse desiderare, ma non ero felice. Gli abiti di Chanel, Versace, Armani; i gioielli più costosi e le macchine più lussuose non erano in grado di donarmi l’unica cosa cui anelavo con tutta me stessa.
La libertà.
Mi sentivo in prigione, rinchiusa in una gabbia dorata. Guardavo il mondo attraverso le sue sbarre, volevo scappare ma non potevo farlo. Ero condannata. Condannata a vivere per l’eternità quell’esistenza fittizia basata sulle cose materiali, sull’opulenza, sull’apparire anziché sull’essere. Avrei dato dieci anni della mia vita pur di frequentare una scuola pubblica. Avrei regalato a chiunque il mio yacht e il mio castello pur di riuscire ad assaporare la gioia di un gelato mangiato per strada, di una vacanza al mare con le amiche, di una passeggiata solitaria senza più l’ingombrante peso di quelle quattro guardie del corpo che mi seguivano ovunque andassi, qualunque cosa facessi. Erano la mia ombra e quindi il mio tormento.
Non potevo muovere un solo passo senza di loro.
La stampa italiana si interessava moltissimo alla mia persona e il mio volto appariva quasi ogni giorno sui principali rotocalchi rosa.
La gente leggeva con avidità di me perché voleva essere me.
Ero spiata dai fotografi alla stessa stregua di un’attrice da premio Oscar. I giornalisti si contendevano una mia intervista, una mia foto rubata, motivo per cui mio padre, spinto dalle circostanze, d’improvviso si vide costretto ad assoldare un ufficio di public relations che tenesse a freno la curiosità della stampa, rilasciando ogni tanto una mia dichiarazione e immagini ingannevoli della mia controfigura ufficiale.
Perché avevo anche quella.
Non l’avevo mai incontrata. Sapevo solo che era più grande di qualche anno, molto simile a me con i suoi lunghi capelli castani, gli occhi azzurri, il fisico esile. Capitava spesso che inseguissero lei in aeroporto mentre io scappavo con papà su un jet privato diretto da qualche parte nel mondo.
Avevo anche una sorella più grande, molto diversa da come ero io. Lei amava la sua vita, il suo potersi permettere qualunque cosa sognasse. Perché nonostante i suoi ventisei anni vissuti nella ricchezza più sfrenata riusciva ancora a desiderare qualcosa. L’ultimo abito di Cavalli, una borsa di Prada, le scarpe di Casadei, un gioiello antico.
L’altra nota dolente che disseminava di tristezza la mia già difficile vita era l’amore. Non lo avevo mai conosciuto, non lo avevo mai assaporato. A quindici anni avevo avuto un breve flirt con Pablo, figlio del console di Spagna. Ci eravamo incontrati a un evento di beneficenza e lui mi aveva baciata nel giardino del sontuoso palazzo in cui si svolgeva il ricevimento. Di nascosto da tutti, quando gli altri erano impegnati a gustare le prelibatezze del buffet preparato per l’occasione. Lo aveva fatto all’improvviso, circondandomi i fianchi con le braccia e guardandomi per una frazione di secondo negli occhi prima di affondare le sue labbra infuocate sulle mie. Era la prima volta che baciavo un ragazzo, ma non fu di certo come lo avevo sempre immaginato. Nessuna emozione si scatenò dentro di me, niente farfalle nello stomaco, niente cuore che palpitava. Dopo Pablo fu la volta di Johann, figlio di un diplomatico tedesco conosciuto durante il matrimonio della sorella Ireen. Con lui non ci fu solo un flirt, ma una vera e propria storia durata trentaquattro mesi e sedici giorni. Avevo diciannove anni, mi ero diplomata da poco. Era estate, i miei ormoni fremevano e anche i suoi.
A seguito del nostro incontro avevamo trascorso le vacanze nella sua tenuta estiva in Cornovaglia. Con lui stavo bene, mi divertivo, ma non lo amavo. Le farfalle sotto il cui battito speravo tanto di sentirmi agonizzare anche quella volta si fecero desiderare. Capii che era arrivato il momento di chiudere la nostra relazione il giorno in cui mi chiese di sposarlo. Io avevo ventidue anni, lui ventisette. Mi sentii letteralmente in trappola quando mi infilò un prezioso diamante al dito. La sera stessa, tornata a casa, tolsi l’anello, lo riposi in una busta allegandolo a una lettera e chiesi alla mia fedele dama di compagnia di rispedirlo al mittente. Papà fu costretto a spiegare alla stampa italiana e internazionale i motivi del nostro addio: “Separazione consensuale avvenuta in modo amichevole”, fu il comunicato ufficiale.
Neanche fossimo stati sposati.
I due anni successivi furono un vero disastro dal punto di vista personale. Mi ero laureata in International Economics and Finance come tanto aveva desiderato mio padre e mi apprestavo a partire per Londra per seguire un master sul diritto finanziario. Le linee guida della mia vita erano state perfettamente tracciate dai miei genitori. Avevano espresso il loro volere e io, da brava e ubbidiente figlia qual ero, avrei assecondato alla perfezione le loro pretese. Nel frattempo era stato programmato anche il mio fidanzamento ufficiale con Landon Nathan Douglas-Hamilton, il figlio secondogenito del Luogotenente Governatore del Baliato di Guernsey. Landon era un ragazzo piacevole, ma non ne ero per nulla innamorata. Eppure era così che doveva andare: il mio destino mi vedeva come la sua giovane sposa e il mondo non attendeva altro che il nostro futuro matrimonio.
Mi restavano dunque soltanto tre mesi di apparente libertà prima di finire di nuovo schiacciata da quegli schemi predefiniti. Era luglio, a Città di Castello il caldo era diventato soffocante. Si respirava a fatica persino nell’ombroso parco della nostra dimora. Rintanata nella mia camera osservavo il panorama attraverso la finestra spalancata. Guardavo gli alberi secolari in lontananza, gli zampilli di una delle tante fontane sullo sfondo. Guardavo, ma non vedevo nulla. Nei miei occhi c’era il vuoto assoluto. Mi sentii rabbrividire al pensiero della vita che mi aspettava. I numeri non erano mai stati la mia passione, così come non lo erano il marketing, la finanza, il diritto d’impresa, la Cambridge University e Landon Nathan Douglas-Hamilton. Io sognavo i vulcani, invece. Nel cassetto dei miei desideri più ambiti c’era una laurea in Scienze Biologiche, l’unica che mi avrebbe permesso di diventare vulcanologa, una ricercatrice sul campo con le mani sempre sporche di terra, gli abiti imbrattati, l’elmetto protettivo sulla testa.
Era la mia vocazione, ma vi dovetti rinunciare.
Non provai neppure a discuterne con i miei genitori: sarebbe stata una battaglia persa in partenza, l’ennesima sconfitta che mi pesava sullo stomaco come un macigno.
Sollevai lo sguardo al cielo e sospirai. Dovevo dare una svolta alla mia vita. Dovevo farlo per me stessa, come giusta ricompensa per tutte le volte che avevo soprasseduto al mio volere per amore dei miei genitori.
Ero convinta di meritare anch’io un briciolo di felicità.
Mi alzai dal letto, uscii sul balcone. L’aria soffocante mi costrinse a dischiudere la bocca nel tentativo di recuperare ossigeno. Sapevo che laggiù, nella bella e assolata Sicilia, c’era una piccola isola di ventuno chilometri quadrati che non avevo mai avuto occasione di visitare.
Il suo nome, per me, rappresentava un forte richiamo.
Vulcano…
Il mio istinto mi stava conducendo là, in quel luogo in cui la mitologia greca situava le Fucine di Efesto, il dio del fuoco e dei metalli. In quello specchio di mare caldo con le sue sabbie nere, le emissioni solforose, i suoi tramonti infuocati.
Sentivo che quella scelta avrebbe ridipinto di colore la mia vita.
E questa volta non mi sarei fermata davanti al diniego di nessuno.