IN ESCLUSIVA LE PRIME PAGINE DEL MIO NUOVO ROMANZO

"Per me l'immenso è amarti"

 

 

 

 

In fondo al cuore


Laurearmi in Archeologia fu la più grande conquista della mia vita. Anni di studio intenso e appassionato cui mi ero dedicata anima e corpo, il più delle volte dimenticando di avere una vita sociale di cui poter godere data la mia giovane età. Fino a pochi istanti prima di raggiungere quell’importante traguardo avevo anche un ragazzo. Il fidanzato perfetto, quello che ogni singolo giorno mi giurava amore eterno e che sognava per noi un futuro traboccante di sentimenti e soddisfazioni. Tutto questo fino al suo incontro ben poco casuale con la vecchia fiamma adolescenziale, tornata alla carica dopo anni di oblio giusto per stravolgere e incasinare la mia esistenza. Lei si era magicamente palesata il giorno precedente la mia discussione della tesi e lui mi aveva detto addio a cinque minuti esatti dalla proclamazione di un glorioso centodieci e lode, corredato da bacio accademico. Soddisfatta del risultato appena raggiunto mi ero precipitata nella sua direzione per abbracciarlo, ma il bastardo mi aveva respinto con entrambe le mani pronunciando quella frase che, ancora oggi, ricordo con lo stomaco stretto in una morsa: «Io non ti amo più Diana.» Ciò che invece dimenticai con molta più facilità fu quanto accadde subito dopo. Un sussulto del cuore nel petto, gli occhi sbarrati fissi nel vuoto, i muscoli cristallizzati nell’aula ancora gremita di gente tra cui figuravano anche i miei genitori. Poi, il nulla.

 

Festa di laurea cancellata ovviamente. Quello lo ricordavo benissimo.

 

La vita toglie, ma ti dà anche. Superato lo shock iniziale ripresi in mano le redini della mia vita e partii spedita alla conquista del secondo ambito trofeo, un master di dieci mesi in Conservazione e Restauro dei Beni Storico-Artistici Mondiali. La mia formazione più che qualificata mi aveva permesso di diventare in breve tempo ricercatrice presso l’Università Statale di Milano, partecipando di conseguenza a numerose spedizioni in Egitto organizzate dal mio stesso ateneo. Era sempre un piacere tornare in quella terra desertica e ancestrale, vivere per mesi in una tenda sotto le stelle, trascorrere intere giornate a scavare, recuperare, identificare antichi reperti. Il lavoro era diventato l’unico elemento della mia vita in grado di emozionarmi, coinvolgermi, ma soprattutto farmi sognare. Perché io, nei sogni d’amore, non credevo più. Dopo la fine della mia ultima storia non avevo più osato sfiorare con lo sguardo altri uomini, l’infima categoria da cui cercavo con tutta me stessa di stare alla larga. Troppo male faceva un cuore spezzato, troppo dolore avevano procurato quelle lacrime versate a fiumi per mesi. La mia testa era sempre immersa nel passato alla ricerca di qualche grande tesoro da scoprire; non avevo tempo di pensare ad altro e alla fine ne ero quasi contenta.

 

Il lavoro mi rendeva felice, indipendente, libera.

 

La porta del mio cuore, invece, era stata sigillata con un lucchetto e la sua chiave gettata per sempre nelle profondità degli abissi.

 

Là, dove nessuno sarebbe mai riuscito ad arrivare.


 

 

 

Nella terra dei faraoni


Il professor Giovanni Lamberti, Direttore del Dipartimento di Archeologia, mi aveva convocato nel suo ufficio un caldo pomeriggio di giugno. Quel giorno ricoprivo il ruolo di assistente all’esame orale di Gemmologia, ritenuto dagli studenti dell’indirizzo Pre Protostorico uno dei più ostici. Il ragazzo seduto davanti a me, un timido ventenne dall’aria tutt’altro che tranquilla, quasi ansimava mentre rispondeva senza troppa convinzione alla domanda che gli avevo appena posto.

 

«Coraggio» gli dissi con un sorriso, nel tentativo di metterlo a suo agio. Lui mi fissò con aria smarrita mentre una goccia di sudore gli attraversava la fronte. Provai tenerezza nei suoi confronti e decisi così di aiutarlo, suggerendogli parte della risposta. Il ragazzo si mise sull’attenti, continuò il discorso arrabattandosi come meglio poté e finalmente passammo alla domanda successiva. Fu proprio in quel preciso istante che arrivò la convocazione.

 

«L’aspetto con urgenza nel mio ufficio» mormorò Lamberti in tono imperioso, apparendo d’improvviso sulla scena. «La sostituirà Raineri» aggiunse subito dopo, ormai in procinto di andarsene.

 

Il mio sguardo tornò al ragazzo.

 

«Ti do ventidue, di più non mi è proprio possibile. Ma tu vedi di studiare meglio la prossima volta!» lo redarguii, segnando il voto sul libretto.

 

«Grazie mille professoressa Martini» ribatté il giovane, allacciando le mani davanti al petto.

 

Mi feci largo tra gli studenti accalcati attorno alla scrivania e, camminando ad ampie falcate lungo il corridoio, raggiunsi lo studio di Lamberti. Assestai un colpo leggero alla porta, sentii il professore bofonchiare qualcosa di indefinito ed entrai.

 

«Prego, si accomodi» disse, indicando l’elegante sedia di pelle di fronte alla scrivania.

 

Mi sistemai su di essa accavallando le gambe, chiusi con le dita il terzo bottone della camicia rimasto aperto nel tentativo di dare sollievo alla pelle accaldata e attesi con impazienza di scoprire il motivo per cui mi trovavo là. Lamberti sfogliò un quotidiano, raggiunse una pagina segnata con un adesivo rosso e infine me lo porse.

 

«Ne era al corrente?» mi chiese dopo qualche istante, mentre leggevo con avidità l’articolo.

 

Mi presi qualche secondo per rispondere. «No, ma sarebbe una scoperta davvero sensazionale» fui solo in grado di dire, gli occhi ancora incollati alla pagina di giornale. L’uomo si schiarì la voce chiedendo di nuovo la mia attenzione. Appoggiai il quotidiano sulle ginocchia e lo fissai con un’espressione attonita sul volto.

 

«Stiamo organizzando una spedizione a Luxor proprio per capirne di più. La spedizione sarà capitanata dal professor Lawrence Parker dell’Università di Manchester. Hanno chiesto la collaborazione del nostro ateneo e vorrei che lei, dottoressa Martini, facesse parte del team che manderò a breve in Egitto.»

 

Fantastico, pensai. Davanti a me si profilava la più grande occasione della mia vita. Il professor Parker, secondo quanto raccontava il Times, dopo aver analizzato alcune scansioni digitali ad alta risoluzione dei muri interni alla tomba di Tutankhamon aveva scoperto due ingressi rimasti inviolati fin dall’antichità. Ingressi che, secondo lui, conducevano a una tomba ben più grande e importante.

 

Quella della regina Nefertiti.

 

Le mie sopracciglia si inarcarono verso l’alto, a stento trattenni un sorriso di soddisfazione. Riposi il quotidiano sulla massiccia scrivania e, al sicuro sotto di essa, la mia mano si strinse in un pugno trionfale.

 

Sì, sì, sì. Non avrei potuto ricevere incarico migliore.

 

«La partenza è prevista tra pochi giorni» interruppe i miei pensieri Lamberti. «L’aspetto domattina alle dieci in aula magna per un briefing. Può tornare ai suoi esami ora.»

 

Lo ringraziai con una vigorosa stretta di mano e mi congedai camminando a un metro da terra.

 

Alle dieci in punto del giorno seguente ero già seduta in aula magna, block-notes tra le mani e la voglia di scoprire tutti i dettagli della nostra prossima campagna di scavo. In quell’immensa sala eravamo soltanto in sei, quattro ragazze e due ragazzi. Lamberti ci raggiunse più tardi in compagnia della professoressa di Antropologia, elegantissima nel suo tailleur nero che ne metteva in risalto la bionda chioma leonina. La ragazza accanto a me, che avevo intravisto in precedenza a un convegno, sbadigliò più volte e si stiracchiò sulla sedia.

 

«Ma quando inizia questo briefing?» domandò, senza rivolgersi ad alcuno in particolare. «Sono già le dieci e un quarto.»

 

La persona alle nostre spalle si intromise nella discussione: «Spero presto. Ho un sacco di cose da fare oggi» sentenziò sbuffando.

 

«Sapete già chi ci sarà a capo del team?» domandò la ragazza seduta una fila più giù, voltandosi verso di noi.

 

«Max Einaudi» rispose di getto il tipo al mio fianco.

 

Sentii quel nome e, senza un motivo apparente, drizzai le orecchie.

 

«Il figlio dell’archeologo Enrico Einaudi? Intendi proprio lui?» chiese sgomenta la ragazza che aveva posto la domanda.

 

«Esatto» confermò il tipo.

 

«E quanti anni avrebbe questo Max?» si intromise un’altra.

 

«L’età precisa non la so» rispose, scrollando le spalle, «comunque credo sulla trentina.»

 

Le nostre chiacchiere furono interrotte dalla voce imperiosa del professor Lamberti, che ci richiamò all’ordine con un colpo di tosse. Ci voltammo in direzione della scrivania e in quell’istante un ragazzo molto alto, capelli castani, camicia bianca e pantalone beige fece il suo ingresso in aula magna. Io e le altre tre ricercatrici ci scambiammo uno sguardo furtivo.

 

«Vi prego, ditemi che il tizio appena entrato è Max Einaudi» sentenziò qualcuna di loro, suscitando una risatina collettiva.

 

«Buongiorno a tutti. Sono Max Einaudi, il vostro capo team» disse baldanzoso l’aitante giovane.

 

Ebbene sì, era proprio lui.

 

Lo squadrai dalla testa ai piedi evitando di farmi notare.

 

Ahimè, guai in vista…

 

Quella voce profonda e suadente e lo sguardo da archeologo navigato che la sapeva molto lunga non promettevano nulla di buono.

 

«Se gli scavi che andremo a svolgere confermeranno le intuizioni del professor Parker» continuò poco dopo, affondando una mano sulla scrivania, «la nostra prossima spedizione potrebbe avere risvolti pazzeschi. Ecco perché chiedo a tutti voi la massima collaborazione.»

 

Il tipo accanto a me sollevò il braccio per richiamare la sua attenzione.

 

«Domande?» gli chiese Einaudi.

 

«Sì, una» rispose tutto tronfio. «Non è forse più probabile che la misteriosa tomba celata dietro quelle porte nasconda invece il corpo della principessa Tirkefetan, sorella di Tutankhamon? Sappiamo tutti che la madre di Tut non era Nefertiti, ma Kiya.»

 

«Brillante considerazione dottor…?» si complimentò sedendo senza alcuna formalità sulla scrivania, le gambe penzoloni.

 

«Michele Moretti» ribatté il ragazzo con acceso orgoglio.

 

«Ok Michele. Ti informo che abbiamo validi elementi per stabilire che Tirkefetan sia stata sepolta altrove e, di conseguenza, ottime probabilità che dietro quelle porte si nasconda qualcosa di veramente straordinario.»

 

Ok, era tutto fantastico e Max Einaudi un bravissimo oratore, ma io avevo fretta di scoprire ogni più piccolo dettaglio sulla spedizione e soprattutto quando avrei potuto preparare la valigia, perché non ne potevo più dell’afosa e invivibile Milano, degli esami orali di Gemmologia e della sconsolante solitudine in cui mi crogiolavo da anni. Alzai dunque la mano e chiesi la parola. Einaudi sollevò lo sguardo nella mia direzione e mi fissò per qualche istante rimanendo in silenzio.

 

«Prego» mormorò dopo un po’, continuando a guardarmi.

 

«Buongiorno dottor Einaudi. Sono Diana Martini e ho qualche domanda da porle.»

 

Corrugò la fronte e si sistemò sulla scrivania, stringendone il bordo con entrambe le mani e incrociando le caviglie una sull’altra. In quel frangente notai un braccialetto di caucciù scivolargli sul polso; non ne compresi il motivo, ma rimasi a fissarlo più del dovuto, come se ne fossi rimasta stregata.

 

«Prego, continui» mi riscosse dai miei pensieri.

 

«Ah sì… giusto» schiarii la voce, un lieve rossore sulle guance. «Se possibile vorrei sapere la data della partenza.»

 

«Bella domanda, interessa anche a me saperlo» dichiarò sottovoce la ragazza più avanti di una fila, alzando il pollice nella mia direzione. Negli occhi degli altri ricercatori si rivelò un guizzo di compiacimento, come se il mio quesito fosse quello che ognuno di loro attendeva con ansia di poter porre.

 

«Ha fretta di partire?» chiese Einaudi di rimando, rivolgendomi un’occhiata sardonica.

 

A dispetto dell’atteggiamento indisponente che aveva avuto nei miei riguardi cercai di mantenere un’aria professionale e risposi nel modo più cordiale possibile alla sua infelice frecciatina: «Ho bisogno di organizzarmi prima della partenza» dichiarai con convinzione, il tono di voce serio. Einaudi indirizzò il suo sguardo nel mio, procurandomi un lieve sussulto che riuscii a malapena a controllare. Qualcosa di indefinito si agitò nel mio stomaco.

 

«Ok» proruppe l’aitante archeologo, scendendo dalla scrivania con un saltello. «Da quanto ho potuto intuire la risposta alla domanda della dottoressa Martini sembra interessare a tutti.»

 

«Non vedono l’ora di fare le valigie per schiodarsi da qui» sogghignò Lamberti, intromettendosi nella discussione.

 

Einaudi inarcò le sopracciglia e tornò a noi con lo sguardo. Anzi. Più che a noi tornò alla sottoscritta. Mi fissò in modo quasi irritante e nella sua occhiata percepii una nota di scherno. La cosa non mi piacque affatto e mi irrigidii.

 

«Bene» disse subito dopo, stavolta soffermando i suoi occhi verdastri anche sugli altri ricercatori. «Potete già preparare i bagagli allora. Si parte fra due giorni.» Un vociare collettivo si sollevò nell’aula illuminata da un raggio di sole. «Non siete contenti?» domandò perplesso.

 

«Certo, ma…» mormorò con timidezza Stefano, l’altro ragazzo. «È davvero molto presto dottor Einaudi.»

 

«Ha forse qualcosa di più importante da fare?»

 

«No, assolutamente…»

 

«Qualunque impegno concordato in precedenza sarà annullato» si intromise di nuovo Lamberti. «Vi sostituirà un collega e questo è tutto.»

 

«Il briefing è finito» gli diede manforte Max. «Ci vediamo giovedì alle nove all’aeroporto di Linate. Buona giornata a tutti» concluse infine, sistemando alcuni fogli dentro una cartelletta verde.

 

Due giorni… Avevo a disposizione soltanto quarantotto misere ore per sistemare casa, concludere una relazione che avrei dovuto consegnare il lunedì successivo, preparare la valigia, prenotare una seduta dall’estetista e correggere duecento esami scritti di Antropologia dell’età dei metalli.

 

Quelli dovevano essere matti.

 

Sostituti o non sostituti non ce l’avrei mai fatta a portare a termine i miei impegni.

 

Mi agitai al solo pensiero di tutte quelle incombenze e, alzandomi di scatto dalla panca, mi avviai con passo nervoso verso la porta. Fu in quel momento che mi sentii chiamare.

 

«Dottoressa Martini» disse una voce alle mie spalle.

 

Mi voltai poco convinta e vidi il capo team fissarmi con una strana espressione sul volto.

 

«Sì?» gli chiesi perplessa. Accorciò la distanza tra noi e io sentii uno strano calore diffondersi ovunque, intorno a me e dentro di me.

 

«Mi era parso di capire che aveva altre domande da pormi.»

 

La ragione per cui me lo stesse chiedendo in privato non mi fu chiara. Aveva forse qualcosa da nascondere?

 

«Sì, certo…» abbozzai, stringendo tra le mani il block-notes.   «Volevo solo sapere in che modo si svolgeranno gli scavi, considerato che il professor Parker non ci ha ancora inviato i risultati delle analisi effettuate al computer.»

 

«Riceveremo indicazioni direttamente sul posto» mi spiegò, occhi nei miei e volto serio. Un guizzo balenò tra le sue iridi.

 

Accipicchia. Einaudi era davvero un ragazzo bellissimo, uno di quelli che puoi incontrare soltanto nei tuoi sogni più proibiti. Quelle spalle ben piazzate, poi, ti portavano a fantasticare di abbracci e baci appassionati su una spiaggia deserta… Il solo pensiero mi fece scuotere la testa contrariata. Dovetti appellarmi a tutta la mia buona volontà per non far trapelare il lieve turbamento che stavo provando in quel momento. «Capisco» mormorai timida, indietreggiando di un passo.

 

Lui mi scrutò a fondo. Fu come se mi stesse studiando e io mi irrigidii di nuovo.

 

«Altre curiosità?»

 

«No, è tutto. Grazie mille dottor Einaudi» mi congedai, dirigendomi verso l’uscita dell’aula magna.

 

Trascorsi la notte a correggere i compiti scritti di Antropologia. Uno dopo l’altro, senza concedermi neppure pochi secondi di pausa. Si fecero le cinque di mattina; dopo aver puntato la sveglia alle otto me ne andai finalmente a dormire. Sgusciai dal letto appena udii la fastidiosa melodia della sveglia infrangere lo scrigno di silenzio in cui riposavo come un angelo. Avevo a disposizione altre ventiquattro ore prima della partenza e ancora mi restavano da svolgere tre quarti delle cose programmate in precedenza. Lasciai la relazione sulla Fonologia dell'egiziano antico per ultima e mi dedicai alle pulizie di casa; la spedizione sarebbe durata sei mesi, non potevo di certo permettermi di lasciare il mio appartamento in disordine. Alle tre in punto mi recai dall’estetista, infine entrai in uno store del centro per acquistare indumenti ed effetti personali che mi sarebbero serviti durante la mia permanenza nel deserto. Rientrai sul finir del pomeriggio, distrutta. Preparai i bagagli e, per concludere, mi dedicai alla relazione. Erano le tre di notte quando la inviai al professore di Fonetica. Quando poco dopo mi infilai a letto mi addormentai come un sasso.

 

L’aeroporto di Linate brulicava di gente. Scesi dal taxi, pagai la corsa chiedendo la ricevuta per il rimborso e mi incamminai verso l’area delle partenze, dove trovai gli altri membri del team con le loro valigie ricolme di sogni e una palpabile eccitazione sui volti.

 

«Ciao a tutti» dissi loro, sfoggiando un ampio sorriso. Ci stringemmo la mano e passammo alle presentazioni. Monica e Clarissa avevano più o meno la mia età e, proprio come me, lavoravano presso il Dipartimento di Archeologia dell’Università degli Studi di Milano; mi era già capitato di incontrarle in altre occasioni prima di allora, ma non avevo mai avuto la possibilità di approfondirne la conoscenza. Annalisa, Stefano e Michele, invece, erano stati selezionati tra i migliori ricercatori dell’Università di Torino per prendere parte a questo importante progetto.

 

Passammo il check-in e ci incamminammo in direzione del nostro gate. Mancava più di un’ora alla partenza, così sedemmo al tavolo di un bar e ordinammo caffè e cappuccini accompagnati da brioche appena sfornate.

 

Stavo bene quel giorno. Mi sentivo felice e piena di energie, ma soprattutto ansiosa di salire sull’aereo che mi avrebbe condotto lontano dalla consuetudine e dalla noia quotidiana, consentendomi di immergermi in tutto e per tutto nel mondo dorato che tanto adoravo.

 

Ero ancora pervasa da un senso di profonda beatitudine quando il suo nome fece la comparsa nei nostri discorsi.

 

«Qualcuno ha notizie di Max Einaudi?» chiese Clarissa, sorseggiando il suo cappuccino.

 

«Arriverà più tardi» ci informò Michele, come se i due avessero preso accordi in precedenza.

 

«Te lo ha detto lui?» si fiondò nella discussione Annalisa, incuriosita.

 

La risposta di Michele lasciò tutti quanti perplessi. «Certo che me lo ha detto lui» sottolineò con un moto di orgoglio, un sorrisino di soddisfazione sul volto. «Ci siamo sentiti ieri sera e anche poco fa.»

 

«Avete già stretto amicizia a quanto pare…» storse il naso Monica.

 

«È stato lui a chiedermi il numero di telefono il giorno del briefing. Aveva bisogno di una persona di riferimento.»

 

«Ok, ma non te la tirare troppo» infierì Annalisa. «A Torino lo sanno tutti che gli piacciono le donne.»

 

Michele sembrò risentito per quella battuta e fece una smorfia di disappunto. «Ti ricordo che le donne piacciono anche al sottoscritto» si difese in tono acido, gonfiando il petto.

 

D’un tratto udimmo la sua voce e interrompemmo la discussione.

 

«Buongiorno a tutti» esordì, sfilando una sedia dal tavolo accanto. Il caso volle che prendesse posto proprio vicino a me. «Allora, siete contenti di partire?»

 

«Moltissimo dottor Einaudi» rispose pronto Michele.

 

«Da oggi in poi sarò soltanto Max» e si voltò a guardarmi.

 

Gli rivolsi un lieve sorriso e abbassai lo sguardo. Il suo polso sinistro si insinuò nel mio campo visivo e io non potei fare a meno di notare il braccialetto di caucciù, ma questa volta lo osservai con maggiore attenzione. Sulla parte in metallo era inciso un simbolo molto caro agli antichi egizi: la croce ankh, la chiave di Iside, emblema della vita e dell’immortalità. La stessa che portavo sempre al collo. D’istinto sollevai una mano e scostai un poco la canottiera bianca dietro cui si nascondeva il pendente. Lo sfiorai con le dita, infine lo strinsi fra di esse. Lo avevo acquistato tempo addietro in un piccolo negozio del Cairo e da allora lo avevo sempre considerato il mio portafortuna.

 

I miei pensieri furono interrotti di colpo da una risata piuttosto rumorosa. Einaudi aveva appena fatto una battuta divertente e gli altri membri del team si stavano letteralmente sbellicando; sbattei più volte gli occhi e, sentendomi in difetto, mi ridestai in tutta fretta.

 

«Si può sapere come fai a non ridere Diana?» mi chiese Clarissa, dandomi un buffetto sulla schiena.

 

«Scusatemi, ero distratta» mi giustificai in pieno imbarazzo. Gli occhi di Einaudi si fissarono su di me. Tenni il pendente ancora stretto nella mano destra e inavvertitamente lo feci scivolare sopra la canottiera. Mi resi conto di averne appena combinata una delle mie: non era certo mia intenzione fargli scoprire che indossavamo lo stesso amuleto, magari dandogli adito di pensare a un gesto compiuto apposta per attirare la sua attenzione. Grazie al cielo i passeggeri del volo furono chiamati per l’imbarco. Ci alzammo dal tavolo e finalmente salimmo sull’aereo.

 

Trascorsi tutto il viaggio agitandomi di continuo. Quelle sei ore sembravano non passare mai e a nulla valsero i miei tentativi di distrarmi facendo altro, come ascoltare musica o giocherellare con il telefonino. Niente riusciva a distogliere la mia attenzione da quel pensiero fisso: non vedevo l’ora di arrivare a destinazione per iniziare la mia nuova avventura.

 

Atterrammo a Luxor nel pomeriggio. L’aria era irrespirabile, faceva un caldo terribile e il tasso di umidità era schizzato alle stelle, rendendo difficoltosa la respirazione. Salimmo su un pulmino e fummo condotti in hotel. Dopo averci invitato a sistemare i bagagli nelle rispettive camere Einaudi ci convocò in sala stampa per un briefing.

 

 

«Bene ragazzi» disse, camminando da una parte all’altra della stanza. «Poco fa ho sentito il professor Parker. Domattina all’alba sarete condotti nella Valle dei Re per alcuni sopralluoghi. Collaboreremo con gli archeologi di Manchester, i quali ci diranno passo dopo passo come procedere. L’appuntamento è alle quattro nella hall.» Fece una breve pausa. «Domande?» chiese, fissandoci uno a uno.

 

«Il nostro accampamento sarà nella Valle dei Re?» si informò Monica.

 

«Sì» rispose secco Einaudi. «Avremo a disposizione alcuni alloggi che condivideremo tra di noi. Cercate di riposare bene, questa sarà la vostra ultima notte in un hotel con tutte le relative comodità» concluse infine, congedandosi in tutta fretta.

Rientrai in camera con Clarissa; mentre lei si infilò nella doccia in cerca di refrigerio io ne approfittai per affacciarmi al balcone, da cui si poteva godere una vista mozzafiato sul Nilo. Erano le sei e mezzo, l’ora del tramonto, e tutto si stava dipingendo dei colori caldi del sole morente. Il lungo corso d’acqua era incendiato da quelle tinte infuocate. Osservai una piccola imbarcazione a vela muoversi con estrema lentezza al delicato soffio del vento e inspirai a fondo l’aria. Trovare la tomba di Nefertiti era il sogno di ogni archeologo: se le intuizioni del professor Parker si fossero rivelate fondate la vita di tutti gli studiosi dell’antico Egitto sarebbe cambiata in modo drastico.

 

E così anche la mia.

 

L’indomani, dopo aver dormito beata per quasi sette ore di fila, alle quattro in punto ero già nella hall. Il cielo blu della notte stava assumendo un colore più chiaro e rosato, ormai in procinto di accogliere l’imminente alba. Seduto su un comodo divano accanto a una possente cascata d’acqua Stefano sfogliava un quotidiano locale, mentre Michele era impegnato a scrivere qualcosa sul suo laptop.

 

Nessuna traccia di Max Einaudi e delle altre ragazze.

 

«Ciao» dissi ai miei compagni, costringendoli a sollevare il capo nella mia direzione.

 

«Buongiorno Diana» rispose Stefano, posando il quotidiano su un bracciolo. «Dormito bene?»

 

«Poco, ma il letto era davvero comodo» risposi, stiracchiando le braccia.

 

«Sei pronta ad affrontare questa nuova sfida?» mi domandò Michele.

 

«Non vedo l’ora» fu la mia risposta. Mi guardai attorno. «Il dottor Einaudi non c’è?»

 

«È fuori a parlare con l’autista del pullmino. La tua compagna di stanza invece?»

 

«Quando sono uscita era ancora a letto.» Stefano aprì il suo zaino e mi porse una merendina imbustata. «Che cos’è?» chiesi, afferrandola.

 

«La nostra colazione. Ne ho portate un bel po’ dall’Italia» e si fiondò su quella destinata a lui.

 

Le nostre chiacchiere furono interrotte dall’arrivo di Monica e Clarissa, seguite poco dopo da Annalisa.

 

«Ho un sonno maledetto» si lagnò quest’ultima, sbadigliando.

 

«Ti conviene farci l’abitudine» le disse Stefano, alzandosi dal divano. «Per i prossimi sei mesi sarà questa l’ora della nostra sveglia.»

 

Einaudi fece la sua comparsa in quel momento. «Sbrigatevi ragazzi» ci esortò, indicando l’uscita con la mano. «Dobbiamo partire.»

 

Salii sul pullman e guardai il panorama attraverso il finestrino. Diedi una controllata all’orologio, infine sfilai dal mio zainetto un piccolo block-notes e iniziai ad appuntare su di esso le mie impressioni e le sensazioni che stavo provando. Disegnai una croce ankh sull’angolo più in basso della pagina, poi riposi il block-notes al sicuro nello zaino e mi godetti la mia prima, splendida alba egiziana.

 

Appena arrivammo nella Valle dei Re ci unimmo al team inglese, composto da giovani archeologi come noi e capeggiato dallo stesso professor Parker, che ci illustrò in anteprima le immagini delle scansioni effettuate al computer.

 

«Sembra che ci sia davvero un altro accesso…» mi disse Michele sottovoce, avvicinandosi al mio orecchio.

 

Ascoltai con attenzione ciò che Parker aveva da dire e dopo quasi mezzora, finalmente, fummo condotti sul luogo degli scavi.

 

«Michele, Clarissa, Annalisa» li convocò d’improvviso Einaudi. I tre gli si avvicinarono e si sistemarono al suo fianco. «Voi seguirete le disposizioni che vi darà il capo team inglese.» Poi si voltò nella mia direzione. «Diana, Stefano, Monica» continuò, guardandoci a turno. «Voi, invece, lavorerete con me.»

 

«Beate te e Monica…!» mi sussurrò Clarissa, mentre si allontanava con la sua squadra.

 

Mi sfuggì un sorriso, che però si dileguò alla velocità della luce appena Einaudi consegnò a ciascuno di noi una mappa, pronunciando parole che non mi sarei mai aspettata di sentire: «Noi non ci occuperemo direttamente degli scavi nella tomba di Tutankhamon» spiegò, lasciandoci attoniti. «Seguiremo invece alcuni lavori a occidente. Sono state individuate altre tombe di estrema importanza nella Valle delle mummie d’oro e il nostro compito sarà quello di recuperare i reperti nascosti in quel sito.»

 

Hei, aspetta un attimo! urlai tra me e me, mentre lo sconcerto assestava un colpo secco nello stomaco. Ero stata convocata da Lamberti per seguire gli scavi nella tomba di Tutankhamon e ora venivo condotta da tutt’altra parte e con tutt’altra mansione da svolgere… Ma quello era un incubo! Mi sfuggì un sospiro di desolazione che Einaudi dovette in qualche modo notare, perché mi fissò per un breve istante con gli occhi stretti in due fessure e il suo sguardo si fece minaccioso. Un attimo dopo lo seguii sul rombante fuoristrada che ci avrebbe condotto nell’Oasi di Bahariya, un lussureggiante rifugio situato a circa quattrocentoventi chilometri dal Cairo.

 

Quel viaggio sembrò non avere mai fine: da nord eravamo scesi a sud-est e da sud-est ci stavamo spostando di nuovo verso nord-ovest. Un vero tour de force che avrebbe messo a dura prova persino il più motivato degli archeologi. Intanto si erano fatte le sei e il sole stava già iniziando a scaldare l’aria frizzantina della notte appena trascorsa. Max accese il motore e io, seduta sui sedili posteriori con la nuca pigiata contro il finestrino, nonostante la rabbia che covavo dentro mi addormentai cullata dal dolce ondeggiare della macchina sulla strada.

 

Giungemmo a destinazione diverse ore più tardi, quasi al tramonto. La temperatura si era abbassata da cinquanta a trentaquattro gradi concedendoci una fugace tregua dall’insopportabile canicola estiva. Il nostro accampamento era sistemato a qualche chilometro dall’oasi, per l’esattezza nella zona in cui, anni addietro, erano state rinvenute centinaia di mummie – molte delle quali d’oro –, unitamente a reperti archeologici di estrema rilevanza. Scesi dall’auto e mi stiracchiai inspirando una boccata d’aria satura di mille odori speziati. Max ci fece sistemare nei rispettivi alloggi, ci consigliò caldamente di riposarci il più possibile e ci concesse il resto della giornata libero. Monica, che avrebbe dormito con me per i sei mesi successivi, abbandonò la pesante valigia a terra e si sdraiò a peso morto sul letto.

 

«Milano-Cairo, Cairo-Luxor, un’ora di briefing con il professor Parker e infine, giusto per cuocerci a puntino, Luxor-Bahariya. Sono distrutta!» si lamentò, fissando il soffitto.

 

Sedetti sul letto accanto e, sospirando, dissi la mia senza risparmiare toni accesi. «In effetti, se proprio devo essere sincera, la decisione di Einaudi mi ha lasciata alquanto perplessa» ammisi, rilassando finalmente la schiena provata da tutte quelle ore di viaggio.

 

«Soltanto perplessa?» si mise seduta di scatto, guardandomi dritto negli occhi. «Io sono nera di rabbia invece! Ci convocano per una spedizione e poi ci conducono da tutt’altra parte!»

 

«Tu hai una vaga idea di quale sia il motivo di questa scelta?»

 

«No, ma sono intenzionata a scoprirlo al più presto» tuonò, sdraiandosi di nuovo. «Dall’altro lato però direi che ci è andata proprio bene» aggiunse, voltandosi a guardarmi in modo sibillino.

 

«In che senso scusa?»

 

«Mi riferisco a Max.»

 

«Continuo a non capire.»

 

«È bellissimo» disse con un profondo sospiro.

 

«Ah, ti riferivi a quello…» mormorai delusa.

 

«Molto meglio lui del professor Parker, non trovi?» scoppiò a ridere.

 

Certo, sì. Max Einaudi era fisicamente meglio di qualunque altro archeologo con cui avessi mai lavorato, ma non era quello il momento di pensare al fascino del nostro capo team. C’era in gioco la mia carriera e io non potevo sopportare l’idea di perdermi la sensazionale scoperta della tomba di Nefertiti.

 

Maledizione! imprecai contrariata. Se fossi stata sola avrei scagliato il mio pesante bagaglio in aria, ma dovetti ingollare la rabbia e mantenere il mio consueto aplomb.

 

Osservai Monica, aveva lo sguardo fisso nel vuoto e le labbra inarcate in un sorriso. Di certo stava pensando al suo divino capo e magari anche a quale tecnica di seduzione attuare per conquistarlo nei giorni a venire. Io invece sentivo il sangue ribollirmi nelle vene, pretendevo una spiegazione e non avrei mancato per nessuna ragione al mondo di parlarne direttamente con lui.

 

Lo avrei fatto a qualunque costo.

 

Aspettai che la mia collega si fosse addormentata e uscii di casa. Il sole era una sfera infuocata sospesa di poco sopra le dune; fissai l’orizzonte, mi beai in silenzio della tranquillità che mi circondava, infine mi incamminai in direzione dell’alloggio di Max Einaudi, una piccola casetta scavata nella pietra a ridosso dell’area archeologica. Bussai alla porta, ma non udii alcun suono provenire dall’interno. Immaginai che stesse riposando e feci per andarmene. Mentre mi allontanavo sentii una voce dietro di me.

 

«Hai bisogno di qualcosa?»

 

Mi voltai e lo vidi sulla soglia, i capelli spettinati e l’aria assonnata tutt’altro che condiscendente. «Dottor Einaudi mi scusi…» mormorai impacciata, tornando indietro. Mi avvicinai a lui e cercai il suo sguardo. «Avrei bisogno di parlarle.»

 

Il ragazzo mi fissò poco convinto mostrandomi senza remore il suo disappunto, ma alla fine mi fece segno di entrare. Varcai intimidita la soglia e, su sua indicazione, sedetti a un piccolo tavolo su cui erano sparsi alla rinfusa una decina di fogli, una mappa della zona, alcuni strumenti di scavo.

 

«Allora? Sto aspettando.»

 

La sua voce mi ridestò dai miei pensieri. Presi un lungo respiro e guardai i suoi occhi. L’ultimo raggio di sole filtrò attraverso una finestra rendendone il colore verde ancora più brillante e trasparente come l’acqua del mare. «Sono venuta qui per chiedere spiegazioni in merito alla scelta di escludermi dagli scavi a Luxor» dissi d’un fiato, schiena dritta e sopracciglia increspate.

 

«Questa è una delle aree d’Egitto più ricche di reperti archeologici. Dovresti essere orgogliosa di far parte del team di recupero delle mummie ivi sepolte» fu la sua secca risposta.

 

«Infatti lo sono dottor Einaudi.»

 

«Max.»

 

«Sì, va bene…» Presi un altro respiro. «Io ho bisogno di sapere il motivo Max. Trovare il luogo di sepoltura della regina Nefertiti è sempre stato il mio sogno, sono stata selezionata apposta per questo… Per quale assurda ragione mi state negando questa possibilità?»

 

«Nessuno ti sta negando niente Diana.»

 

«Allora perché mai non sono rimasta nella Valle dei Re? Perché non sto ricevendo ordini dal professor Parker? Le scansioni al computer sembravano davvero rivelare l’esistenza di un accesso segreto, io le ho viste e…»

 

«Arrabbiarsi non serve a nulla» mi interruppe in tono imperioso.

 

Sentii le guance bruciare, cominciai ad annaspare e mancò poco che non sbattessi un pugno sul tavolo.

 

«Avrai le tue soddisfazioni anche qui, vedrai.»

 

Quelle parole, anziché calmarmi, fecero schizzare la mia temperatura corporea alle stelle. Sentii il cuore agitarsi contro il petto e la testa iniziò a vorticare come una trottola impazzita. Ero andata da lui per ricevere spiegazioni, ma il divino archeologo non sembrava per nulla intenzionato a soddisfare la mia richiesta. Eppure non aveva alcun diritto di lasciarmi con quel tarlo nella testa.

 

«Chiederò al professor Lamberti allora» abbaiai contrariata, alzandomi.

 

Max sollevò il capo e mi trafisse con uno sguardo ben poco amichevole. «Sei qui da due giorni e stai già facendo i capricci» ebbe il coraggio di dire.

 

I capricci? Ma per chi mi aveva preso, per una bambina di cinque anni? Aggrottai la fronte e d’impulso piantai le mani sui fianchi, pronta a combattere la mia battaglia. «Se lei reputa una richiesta di spiegazioni un capriccio, temo allora che debba rivedere quanto prima il dizionario della lingua italiana» mi scagliai verbalmente contro di lui.

 

Einaudi si alzò dalla sedia e mi venne vicino con fare minaccioso.

 

«Stai mancando di rispetto a un tuo superiore Diana Martini» mi puntò il dito contro.

 

«Perché, lei non lo ha forse mancato a me? Le ho soltanto chiesto di motivarmi la sua scelta e in tutta risposta mi sono sentita dare della bambina capricciosa.»

 

«Non ti ho mai dato della bambina.»

 

«Ha detto che faccio i capricci… Non le sembra un’offesa molto grave dottor Einaudi?»

 

«Ti ho ripetuto mille volte di chiamarmi Max.»

 

«E io non ho alcuna intenzione di darle del tu. Vuole forse punirmi anche per questo?»

 

«Anche?»

 

«Sì, anche!» sottolineai furente.

 

«E in cos’altro ti avrei punita, sentiamo.»

 

«Impedendomi di partecipare agli scavi nella tomba di Tutankhamon.»

 

«Quella non è stata una punizione, ma un favore. Un giorno mi ringrazierai per questo.»

 

«Quindi è stato lei a mandarmi qui, non una decisione del professor Parker…» mormorai profondamente scossa.

 

«Sì, sono stato io.»

 

«Mi scusi se glielo chiedo, ma il motivo quale sarebbe?» I miei occhi si stavano bagnando e il tono della mia voce iniziava a mostrare i primi segni di cedimento, passando da ruggito di leone a debole e sottile tremolio.

 

«Il motivo è che non ho ritenuto indispensabile lasciare sei miei archeologi a Luxor. Direi che tre sono più che sufficienti.»

 

«Perché proprio io dottor Einaudi? Perché ha mandato via proprio me?»

 

«Te, Monica e Stefano. E comunque non ho mandato via nessuno. Vi ho solo affidato un altro incarico.»

 

Scossi la testa e mi disperai. Quell’uomo aveva distrutto il mio sogno di assistere all’apertura della tomba di Nefertiti e senza neppure un valido motivo che giustificasse la sua decisione. Sentii un profondo rancore diffondersi nelle viscere e per un soffio non scoppiai a piangere. Riuscii a trattenermi soltanto per non dargli la soddisfazione di vedere le mie lacrime. Mi avvicinai alla porta, la aprii con un gesto deciso che non lasciava spazio a fraintendimenti e uscii senza neppure salutarlo.

 

Certo era che da quel momento in poi quello sciocco ragazzetto figlio di un famoso archeologo avrebbe perso tutto il mio rispetto e la mia stima.

 

La mattina seguente fu Monica a svegliarmi. Avevo dormito pochissimo nonostante la stanchezza, ormai erano giorni che non riposavo più in modo decente e la fatica stava iniziando a lasciare i suoi segni sul mio corpo. Mi alzai dal letto e la prima sensazione che provai fu quella di sentirmi come se mi fosse appena passato sopra un treno. La mia collega mi offrì un caffè e sedette accanto a me al piccolo tavolino a ridosso di una minuscola finestra. Era l’alba, il cielo si era dipinto dei colori tenui del mattino appena sbocciato.

 

«Ti vedo un po’ provata» mi disse, porgendomi una delle merendine di Stefano. «Sei ancora arrabbiata per la decisione di Einaudi?»

 

«Tu come fai a non esserlo Monica?» le chiesi di rimando.

 

«Invece lo sono eccome, solo che non lo do a vedere.»

 

«Perché non vuoi fargli capire di aver sbagliato?»

 

«A quanto pare le missioni erano due e Max ha preferito mandarci qui a Bahariya.»

 

«Manca il motivo» tentai di farla ravvedere. «Ti rendi conto che ci ha cambiato l’incarico senza darci alcuna spiegazione? Se fossi partita da Milano consapevole di lavorare a Bahariya non avrei aperto becco e anzi, ne sarei stata ben felice. Ma trascinarmi in Egitto con l’inganno di cercare la tomba di Nefertiti per poi spostarmi da tutt’altra parte non ha alcun senso logico. È una totale mancanza di rispetto per il nostro lavoro.»

 

«Hai tutte le ragioni, ma cosa potremmo fare per cambiare la situazione? Ribellarci? Fare un sit-in davanti alle tombe? Rifiutarci di partecipare agli scavi? Ci licenzierebbero nel giro di un giorno.»

 

«Stavo pensando di chiamare Lamberti.»

 

«Davvero lo faresti?»

 

«Certo. Chiederò a lui le motivazioni che Einaudi non ha voluto fornirci.»

 

«Senti» mi fissò poco convinta, cambiando d’improvviso tono di voce. «Io capisco la tua rabbia e ti appoggio in tutto, ma ti chiedo cortesemente di non mettere in mezzo anche me.»

 

Scusa?

 

Aveva davvero detto proprio così, di non mettere in mezzo anche lei? Qualcosa non quadrava e i miei sospetti trovarono conferma quando, dopo aver bevuto d’un sorso il suo caffè, si alzò in piedi e mi scrutò dall’alto in basso facendomi sentire una stupida.

 

«Io sono felice di lavorare con Max» dichiarò a braccia conserte. «E questo indipendentemente da ciò che andremo a fare. Nefertiti o non Nefertiti.»

 

Ma certo, avrei dovuto capirlo prima. Era felice di lavorare con il divino archeologo solo per la sua avvenenza, non di certo per l’incarico che le aveva assegnato. Era solo quello il motivo che la spingeva a restare. Di cercare la tomba di Nefertiti le importava meno di zero. Voleva conquistarlo e per perseguire il suo scopo avrebbe giocato tutte le sue carte migliori, partendo da quella della condiscendenza.

 

«Ok, ho capito» mi sollevai anch’io, guardandola di nuovo negli occhi. «Chiamerò Lamberti e chiederò spiegazioni soltanto per me allora.» Uscii di casa e fissai il cielo, un manto rosa e azzurro sopra la mia testa. L’aria frizzantina mi ridestò dalla rabbia procurandomi un brivido. Mi allontanai di qualche metro, sedetti su una roccia, portai le mani alla testa e, sospirando, fissai a lungo la punta delle mie calzature, due vecchi scarponcini impolverati e consumati dal tempo. Li avevo acquistati anni addietro, quando ero in procinto di partire per la mia prima spedizione. Un ricordo speciale che conservavo come un bene prezioso. La mia mente volò verso sud, a Luxor, proprio dove Annalisa, Michele e Clarissa stavano per dare vita alla scoperta più sensazionale del nuovo millennio, quella che li avrebbe proiettati nell’Olimpo degli archeologi più menzionati nei libri di storia. Sentii un sospiro profondo fluire dalle mie labbra, il disperato tentativo delle mie lacrime di materializzarsi sulle guance; poi, richiamata da un inspiegabile sesto senso, sollevai la testa e vidi lui fissarmi da lontano. Nonostante la distanza non potei non notare il verde intenso dei suoi occhi colpito in pieno da un raggio di sole. Mi guardò a lungo e io feci altrettanto. Percepii un moto d’odio montarmi dal petto. Indispettita da quello sguardo insistente cominciai a tremare di rabbia. Lo detestavo con tutta me stessa e dal modo in cui mi stava scrutando capii che anche lui provava lo stesso sentimento nei miei confronti.

 

Era guerra aperta tra noi. Una guerra che avremmo combattuto con tutte le armi a nostra disposizione fino all’ultimo giorno di permanenza nel deserto.

 

Fu Max a distogliere per primo lo sguardo dal mio. Mi diede le spalle e si allontanò verso Stefano e Monica, usciti proprio in quell’istante dalle rispettive abitazioni. A quel punto non potei esimermi anch’io dal raggiungerli. Ingoiai un pesante rospo e mi avvicinai a loro. Max ci salutò uno a uno.

 

«Buongiorno Stefano. Buongiorno Monica» disse, rivolgendo loro un sorriso quasi impercettibile. Poi spostò lo sguardo su di me, ma io abbassai in tutta fretta le ciglia. «Buongiorno anche a te Diana.»

 

Aveva un tono di voce svenevole, quasi da presa in giro.

 

Buongiorno un corno, bofonchiai, mentre dalle mie labbra fuoriusciva un silenzio assordante.

 

«Oggi avrà inizio la nostra missione» continuò subito dopo, maneggiando alcuni fogli. «Come ben sapete le stime suggeriscono che in quest’area potrebbero nascondersi più di diecimila mummie. Il nostro compito sarà quello di portare a termine una serie di scavi concentrati in quella zona laggiù» e la indicò con il dito, costringendoci a voltarci in quella direzione, «contrassegnata come area C1. Lavoreremo insieme con l’unico obiettivo di portare alla luce quelle tombe e i preziosi oggetti nascosti al loro interno. Avete domande?»

 

Sì, una. Come procedono gli scavi nella tomba di Tutankhamon? avrei voluto chiedergli, scatenando con tutta probabilità la sua reazione ostile. Decisi allora di tacere, ma dentro di me ardeva un devastante incendio pronto a invadere ogni cosa appena ce ne fosse stata la possibilità.

 

Stefano e Monica posero i loro quesiti e Max rispose con estrema precisione a qualunque curiosità. Io fui l’unica a non chiedere nulla. Rimasi tutto il tempo a fissare la sabbia sotto i miei piedi, desiderando che quella giornata volgesse quanto prima al termine. Tuttavia, per quanto sapessi di avere tutte le ragioni a essere così arrabbiata, ero comunque consapevole di dovermi riprendere prima o poi. Non potevo covare rancore per i sei mesi successivi, altrimenti il mio benessere psicofisico ne avrebbe risentito. Dovevo trovare un solo motivo per farmi piacere l’incarico che mi avevano assegnato dimenticando la motivazione che mi aveva spinto a partire. Diedi un’occhiata all’orologio, erano passate da poco le cinque e mezzo e il sole stava già iniziando a scottare. Indossai il cappello in testa, un istante dopo seguii Max e gli altri colleghi nell’area di scavo a noi destinata.

 

La mattina trascorse abbastanza tranquilla, con la lentezza tipica del nostro lavoro. Gli scavi avevano già dato i loro primi frutti e nel giro di poco tempo avevamo recuperato una decina di oggetti straordinari: scarabei di giada, un paio di collane, orecchini di corniola, tre braccialetti d’argento, una statuina che riproduceva l’immagine di Bes, il dio della fertilità. Quel luogo era davvero il pozzo dei desideri di ogni archeologo e la sabbia sembrava quasi sputare con sfacciata insolenza i grandi tesori nascosti sotto di essa. Ci fermammo verso mezzogiorno per la pausa pranzo. La temperatura aveva raggiunto i quarantadue gradi e il caldo, per quanto secco, iniziava a diventare insopportabile. Einaudi ci chiamò intorno a lui per parlarci.

 

«Avete tre ore libere» disse, asciugandosi il sudore sulla fronte con un fazzoletto. Ci rivediamo qui alle quindici. Domande?»

 

Monica fece un passo avanti ed esibì un sorriso a trentadue denti.

 

«Stefano e io pensavamo di andare a mangiare qualcosa a El-Bawiti» mormorò, lo sguardo fisso nel suo. «Se vuoi puoi unirti a noi. E anche Diana ovviamente» aggiunse come se le avessero puntato una pistola alla tempia costringendola a includere anche me in quell’invito.

 

«Sì, perché no» rispose il nostro capo, rivolgendomi un’occhiata fugace. «Sei dei nostri Diana?»

 

La sua domanda mi colpì. Era evidente che, nonostante gli sguardi poco amichevoli che mi lanciava ogni tanto, ci tenesse comunque a mantenere il gruppo unito e io mi sentii obbligata ad accettare.

 

«Va bene» fu la mia laconica risposta.

 

Salimmo sul fuoristrada e ci dirigemmo verso il pittoresco villaggio caratterizzato da case di fango circondate da splendidi palmeti. Durante il tragitto costeggiammo la Montagna dell'Inglese; la osservai con attenzione voltandomi a guardarla quando ormai era alle nostre spalle. In quel frangente promisi a me stessa che uno dei giorni a venire sarei salita lassù, a osservare il mondo dall’alto. In silenzio, magari proprio all’ora del tramonto, così da poter godere della quiete in cui sarebbe stato avvolto il deserto.

 

Max guidò a tutta velocità e in pochi minuti raggiungemmo un piccolo ristorante. Sedemmo a uno dei tavoli ombreggiati da palme e piante di ulivi e gustammo alcune pietanze tipiche egiziane. Io fui l’unica a ordinare una semplice insalata di pomodori accompagnata da un’ampia porzione di formaggio locale. La mia scelta, com’era prevedibile, attirò l’attenzione dei colleghi maschi e suscitò la perfida ironia di Monica.

 

«Sei a dieta?» domandò con fare sprezzante, fissando a occhi sbarrati il mio disgustoso piatto.

 

«Non amo la cucina egiziana, non mi è mai piaciuta» le spiegai, condendo i pomodori con un olio locale dal profumo fruttato.

 

«Ogni buon archeologo dovrebbe imparare ad apprezzare le pietanze tipiche del luogo in cui lavora, sarebbe un gesto di rispetto nei confronti della popolazione che lo ospita. Non lo credi anche tu?»

 

Era lapalissiano che con quella dichiarazione del tutto fuori luogo stesse cercando di mettersi in mostra agli occhi di Max. Ma io ero furba almeno quanto lei e per nessuna ragione al mondo le avrei permesso di offendermi o anche solo criticarmi.

 

«Non mi pare che gli egiziani residenti in Italia siano abituati a pasteggiare con fusilli al pesto e spaghetti all’amatriciana» rimbeccai in tono deciso, accompagnando la mia battuta con un’alzata di spalle. Monica mi fissò con aria stizzita storcendo il naso.

 

E alla fine tacque.

 

Fu nel corso di quel primo pranzo tutti insieme che Luxor si affacciò nei nostri discorsi.

 

«Ci sono novità dalla Valle dei Re?» chiese Stefano a un tratto.

 

Drizzai le orecchie e mi misi sull’attenti, attendendo ansiosa la risposta di Max.

 

«Per ora solo supposizioni» fu la sua enigmatica replica.

 

Con mio grande sollievo Stefano volle andarci a fondo.

 

«Quindi ancora nulla?» incalzò interessato.

 

«Ancora nulla.»

 

Sembrava quasi che tenesse la bocca cucita apposta per suscitare la nostra curiosità, consapevole che non ne avremmo cavato un ragno dal buco neppure se lo avessimo messo sotto tortura. Il suo atteggiamento mi fece irritare e per sbollire la rabbia fui costretta a inventare la scusa del bagno. «Torno subito» dissi loro, alzandomi. Lo sguardo di Max mi seguì fino a quando mi fui allontanata. Chiesi a un cameriere dove si trovava la toilette e mi rintanai al suo interno cercando di calmare i battiti furiosi del mio cuore. Guardai l’orologio: il momento che tanto aspettavo era arrivato, non potevo perdere un solo minuto di più. Sfilai il cellulare dalla tasca dei pantaloncini e chiamai il professor Lamberti. Fu sorpreso di sentirmi e, giusto per mettermi in imbarazzo, non mi risparmiò un’antipatica battutina.

 

«Dottoressa Martini» esordì dopo il mio saluto, «ha forse già deciso di fuggire dal deserto?» Avvertii la risata di un’altra persona accanto a lui e immaginai che si trattasse della professoressa di Antropologia, sua grande amica da tempi immemori.

 

«La prego di perdonarmi» mormorai in tutta risposta, «ma ho bisogno di parlarle di una questione che mi sta molto a cuore.»

 

Il tono della sua voce cambiò.

 

«Spero non sia accaduto nulla di grave.»

 

«Dipende dai punti di vista.»

 

«Sono tutto orecchi, mi dica.»

 

«Si tratta della spedizione. Immagino abbia saputo che non mi trovo più a Luxor, bensì a Bahariya.»

 

Lamberti rimase in silenzio per un po’.

 

«Scelta non del tutto condivisibile, ma il dottor Einaudi ha deciso così» dichiarò dopo un breve silenzio.

 

Era la conferma che aspettavo: neppure lui era felice di quella disposizione. La mia rabbia crebbe a dismisura e le parole, ormai non più controllate dalla ragione, fluirono dalle labbra come un violento terremoto. «Professore lei sa quanto io sia preparata sulla regina Nefertiti… Le ho dedicato tutta la mia carriera universitaria, ho scritto una tesi di quattrocento pagine su di lei e sono stata persino alla Sapienza a discuterne davanti a un pubblico di quasi mille persone… Per quale motivo sono stata mandata qui? Perché il dottor Einaudi ha voluto escludermi dalla ricerca della sua tomba?» A stento trattenni le lacrime: il groppo in gola mi stava quasi soffocando, soltanto grazie al mio forte autocontrollo riuscii a evitare di scoppiare in singhiozzi.

 

«Mi dispiace doverla deludere, ma dovrebbe discuterne direttamente con l’interessato. Io gli ho parlato delle sue capacità, delle spiccate doti che la contraddistinguono, ma è evidente che Einaudi non abbia voluto darmi ascolto. E ora mi scusi dottoressa Martini, ho un appuntamento e devo salutarla.»

 

Riagganciò subito dopo senza neppure darmi la possibilità di replicare. Strinsi il telefono nella mano e avvertii l’istinto di lanciarlo contro lo specchio. Fissai la mia immagine riflessa in esso, vidi i miei occhi lucidi, il volto tirato. Mi sfuggì un’imprecazione. «Stupido archeologo da strapazzo, figlio di papà viziato e insolente… ma chi ti credi di essere? Chi diavolo ti credi di essere!» La voce di Monica, entrata in bagno in quel momento, mi sorprese all’improvviso costringendomi ad abbassare la mano con cui, se non fosse arrivata in tempo, con tutta probabilità avrei scagliato il cellulare contro il muro.

 

«Qualcosa non va?» domandò, osservandomi con gli occhi di chi non aspettava altro che commettessi qualche errore per farmi allontanare da Bahariya. «Stiamo aspettando solo te per andarcene.»

 

Impallidii e, cercando di far fluire il respiro trattenuto, riposi il telefono in tasca e aprii il rubinetto. «Mi lavo un secondo le mani e arrivo» le dissi, bagnando con abbondante acqua fresca le gote infiammate.

 

Raggiunsi i miei compagni alcuni secondi più tardi. Appena uscimmo dal ristorante mi accorsi di avere gli occhi di Max puntati addosso come un laser. Evitai il suo sguardo e salii sul fuoristrada. Quando rientrammo al campo erano passate da poco le due e Max ci consigliò di tornare alle rispettive abitazioni per ripararci dal sole cocente. Stavo per andarmene quando d’un tratto udii la sua voce e mi voltai.

 

«Tu resta qui Diana. Devo parlarti.»

 

«Cosa deve dirmi?» ribattei fredda come il ghiaccio, mentre gli altri si allontanavano.

 

«Ti ho chiesto mille volte di non darmi del lei.»

 

«E io le ho ribadito altrettante volte di non essere in grado di farlo.»

 

«Ora basta giocare» si infervorò, alzando la voce di un tono. «Avanti, vieni con me nel mio alloggio.»

 

Rimasi basita di fronte a quella presa di posizione, ma non mossi un solo muscolo.

 

«Ho detto di venire con me!» urlò, lo sguardo torvo.

 

Per la prima volta da quando lo conoscevo lo vidi davvero infuriato. Ebbi un sussulto e feci ciò che mi aveva chiesto senza più esitare.

 

«Ora basta Diana Martini.»

 

Furono quelle le prime parole che pronunciò appena richiuse la porta dietro di sé, il volto a pochi centimetri dal mio, il respiro affannato.

 

Il mio cuore si accanì contro il petto, ma non mi scomposi di un millimetro.

 

«Basta davvero.»

 

«Basta cosa?» chiesi arida.

 

«Basta con questo atteggiamento da vittima. Dobbiamo lavorare insieme per sei mesi e il tuo comportamento rischia di creare attriti all’interno del gruppo.»

 

«Fino a prova contraria non sto facendo nulla di male.»

 

«Invece stai sbagliando tutto. Ti sembra il modo di rispondere a una tua collega?»

 

Capii a cosa si stava riferendo ed ebbi un’illuminazione: il piano di Monica era andato a segno, il bell’archeologo si era invaghito di lei e ora stava cercando di proteggerla. Che gran vigliacco…

 

«Monica mi ha offesa» gli feci notare. «Ma forse lei non se ne rende conto» perché ha deciso di spassarsela con la morettina tutta smorfie e sorrisetti, avrei voluto aggiungere. Max si allontanò al tavolo e mi chiese di sedermi. «Devo farlo per forza?» gli domandai seccata.

 

«È un ordine» proclamò in tutta risposta.

 

Nel momento stesso in cui sedetti di fronte a lui il suo sguardo glaciale mi penetrò con un tale irruenza da farmi sussultare per la seconda volta.

 

«Il motivo per cui ho voluto spostarti da Luxor è che non ti considero abbastanza in gamba per quella missione.»

 

Di colpo la rabbia scemò per lasciare il posto a un profondo senso di inadeguatezza. Ciò che aveva appena affermato non collimava con l’idea che il professor Lamberti si era fatto di me. Stava dunque mentendo? O più semplicemente mi aveva preso in antipatia e ora voleva farmela pagare attraverso l’umiliazione? Ero stata scelta tra centinaia di altri candidati provenienti da tutte le facoltà italiane di Archeologia e lui non mi considerava abbastanza in gamba per partecipare agli scavi nella tomba di Tutankhamon… Non lo ritenevo possibile, non poteva essere vero. Se c’era una cosa di cui ero sempre stata sicura erano le mie capacità in fatto di scavi.

 

Dovevo dirglielo.

 

«Il professor Lamberti è convinto del contrario» mi uscì in un lieve sussurro.

 

«Il capo team sono io, non il professor Lamberti. Ciò che pensa lui degli archeologi che ha inviato qui non sono affari che mi riguardano. Non sei così esperta come credi Diana. Hai ancora molto da imparare, ma non devi prendertela: sei giovane, devi ancora farti le ossa. Quest’esperienza di sei mesi ti servirà per apprendere al meglio le tecniche di scavo arbitrario e stratigrafico, i metodi, le strategie. Fidati di me, per favore. Diventerai di sicuro una brava archeologa, ma tra qualche tempo.»

 

Appena ebbe finito di parlare sentii il labbro superiore tremare e gli occhi diventare lucidi. Aveva vinto lui, dovevo arrendermi: non c’era nulla che avrei potuto fare di fronte a quella schiacciante constatazione, a parte incassare e tacere.

 

Mi sollevai con estrema lentezza dalla sedia e, trascinando i muscoli divenuti pesanti come il piombo, mi allontanai in direzione della porta in silenzio, senza più fiatare, la testa imbrigliata in un vortice assordante di pensieri.