Nicolò aveva solo sei anni quando me lo hanno portato via. Quel bastardo che ha spinto l’acceleratore in corrispondenza di un semaforo rosso me lo ha ucciso in un istante.

 

Ora mio fratello è in cielo, mentre il bastardo in prigione.

 

Dove resterà solo tre anni.

 

Ho provato a rintracciarlo prima che la polizia lo sbattesse in cella, ma non ce l’ho fatta. Mi sono presentata in commissariato con una spranga di ferro, gli occhi offuscati dalle lacrime, il viso sconvolto e il ghiaccio nel cuore.

 

Volevo ucciderlo.

 

Sì, io volevo ucciderlo quell’infame.

 

Volevo fargliela pagare, sebbene fossi stata consapevole che la sua morte non avrebbe riportato in vita mio fratello. Ma la vendetta era l’unico antidoto contro il mio dolore.

 

La vendetta è qualcosa che inseguo ancora oggi.

 

La sogno tutte le notti e, prima o poi, riuscirò nel mio intento; sarebbe già successo se solo avessi scoperto dove hanno sbattuto il responsabile di tutto questo, sulla cui identità vige ancora il più assoluto top secret. Di una cosa però sono sicura: le autorità giudiziarie non hanno fatto i conti con la mia tenacia e un giorno non troppo lontano, l’ho giurato a me stessa, lo troverò.

 

Quando uscirà di galera e tornerà a sorridere, quando riprenderà a ubriacarsi con gli amici sicuro di avere ormai espiato il suo crimine, arriverò io con la mia spranga.

 

Ci vorrà un attimo.

 

 

 

E giustizia sarà fatta.