Cap.1
La finestra della mia camera ha le tende grigie. Proprio come il cielo che domina la città questa mattina.
Guardo il paesaggio attraverso una sottile fessura, vedo un cane che corre in strada con il suo padrone. Sento il rumore di un clacson, la sirena lontana di un’ambulanza.
Sta iniziando a piovere.
Indosso la giacca, un cappello per proteggermi. L’ombrello non lo voglio, preferisco camminare sotto la pioggia per bagnarmi il viso, i vestiti, sentire gli schizzi delle pozzanghere, quelli delle auto che mi passano accanto.
La pioggia non mi spaventa, mi fa sentire viva.
Arrivo al lavoro così, bagnata fradicia.
«Ti ho lasciato una pratica sotto il telefono, dovresti occupartene tu e riportarmela entro le due. Grazie tesoro» mi urla Ivan, uno dei capi, appena metto piede in ufficio.
Siedo alla scrivania, tolgo il cappello e la giacca e mi soffermo a guardare lo schermo spento del computer. Vedo il mio volto triste riflettersi in esso e penso che questa sarà, come tutte le altre, una giornata difficile.
«Come va?» domanda Arianna, la mia collega.
«Normale, e a te?» le rispondo senza voltarmi.
«Sono uscita con il ragazzo conosciuto all’aperitivo dell’altra sera!» esulta felice, passandosi il rossetto sulle labbra. «È troppo bello, mi piace da morire, non vedo l’ora di stare ancora con lui!»
«Anche questa volta hai bruciato i tempi» la riprendo con un leggero astio nel tono di voce.
«Lo so, forse avrei dovuto aspettare qualche giorno prima di accettare il suo invito, avrei dovuto farmi desiderare, magari tirarmela un po’ e… Ok, avrei dovuto fare così, ma non ho resistito! Lui è bello da far paura… Non mi capiterà più un ragazzo del genere se me lo lascio sfuggire. Ho fatto male secondo te?»
«Devo essere sincera? Sì, hai fatto male. Uno come lui sarà abituato ad averle tutte ai suoi piedi. Un bel scusa ma questa settimana non posso spiaccicato in faccia ti avrebbe reso di sicuro più interessante.»
«Tu dici? Va be’, tanto mica ci sono stata la prima sera.»
«Brava. Non devi più commettere gli stessi errori del passato.» Accendo il computer e trovo una decina di e-mail che segnalano le urgenze da sbrigare in giornata. Ne leggo velocemente un paio, alla terza mi fermo:
Ti va un happy hour questa sera? Ti porto in un locale carino.
Per la terza volta consecutiva Marco mi ha invitata a un happy hour. Cestino la mail e continuo nella lettura delle urgenze mentre Arianna, vicino a me, canticchia in allegria le canzoni che passano in radio.
Alle sei in punto esco dall’ufficio. Fino a qualche tempo addietro dopo il lavoro ero solita precipitarmi in palestra o a qualche aperitivo con gli amici e il mio ragazzo di allora, ma da quando il mio angioletto è volato in cielo mi è passata la voglia di fare qualunque cosa. Ho lasciato il mio vecchio impiego solo per evitare gli sguardi compassionevoli dei colleghi, ho abbandonato la città in cui sono nata per non sentirmi costretta a fronteggiare la pietà della gente. Ho fatto la valigia e mi sono trasferita lontano da tutto e da tutti.
Vivo sola, non ho un ragazzo da tre anni e mezzo. La mia vita è finita il giorno stesso in cui hanno spento il sorriso di Nicolò.
Anzi ha spento.
Lui, sempre lui, solo lui. La mia ossessione.
Dove sarà ora? Forse ancora in prigione?
Qualcosa mi dice che non avrà scontato neppure uno dei tre anni inflitti dalla giustizia. Gli avranno dato la condizionale per buona condotta, perché i bastardi fanno sempre così: sono leoni travestiti da agnelli.
Aveva tutti trenta quell’infame e inseguiva il sogno di lavorare al Cern, l’Organizzazione europea per la ricerca sul nucleare. Andava in giro con la camicia e il gilet, sempre in ordine, sempre gentile e sorridente con tutti.
Di lui so solo questo: venticinque anni all’epoca dell’incidente. Studente di Fisica. Gentile. Sorridente. Sognava di diventare ricercatore.
I miei genitori mi hanno nascosto tutto sul suo conto. Sapevano del mio desiderio di vendetta e così, invece di capirmi, mi hanno sbattuta da uno psicologo per farmi aiutare. Lo psicologo ha cercato di curare la mia anima con il dialogo, mi ha fatto parlare, mi ha ascoltato, era là quando sbattevo i pugni sul tavolo, quando piangevo disperata, quando minacciavo di farla finita. Ma la morte mi spaventava e lui lo sapeva. Sapeva che non avrei mai avuto il coraggio di porre fine alla mia esistenza e trascorreva il tempo a osservarmi impassibile, senza dire una parola. Si avvicinava a me soltanto quando mi accasciavo a terra stremata, senza più un briciolo di energie fisiche e mentali. Mi diceva che avevo un disperato bisogno di sfogarmi perché solo le lacrime e la rabbia riuscivano a farmi stare meglio.
Purtroppo aveva maledettamente ragione.
Sono stata in cura da lui per sei mesi. Un bel giorno mi ha detto: «Tu non ucciderai mai quel ragazzo, la tua empatia non ti permetterà di farlo. Se ammazzassi lui sarebbe come se uccidessi te stessa.»
Due giorni dopo ho fatto le valigie e me ne sono andata di casa.
Avevo ventitré anni allora.
Entro in soggiorno e mi rendo conto di dover preparare la cena. Sono le sette di sera, fuori sta piovendo ancora. Il desiderio di non fare niente ha il predominio sulla mia precaria volontà. Con i vestiti ancora addosso mi sdraio sul divano a fissare il soffitto. Lo squillo improvviso del telefono mi ridesta per qualche istante dalla mia apatia, ma invece di alzarmi a rispondere nascondo la testa sotto il cuscino attendendo con ansia che la smetta di suonare.
Da quando i miei genitori si sono trasferiti in Sicilia perché mia madre aveva bisogno di calore, di sole e di mare per riprendersi dalla depressione non rispondo più alle chiamate che ricevo. Esco poco, non sento più la mia compagnia dell’epoca e in questa nuova città non ho stretto alcun tipo di legame. I miei unici amici sono Anacleto, l’ortolano sotto casa, e la panettiera Nina, che ha il negozio a qualche isolato di distanza. Loro riescono a farmi sorridere ogni tanto. Non sanno niente di me, del mio drammatico passato, di quello che ero e di quello che sono.
Loro sanno soltanto che mi chiamo Mirea.
L’esplosione violenta di un tuono mi fa risvegliare di soprassalto. Sono le undici di mattina di un ottobre abbastanza mite, il mese delle foglie che ingialliscono e cadono. La città si è vestita a festa, tra poco si celebra Halloween e i negozianti hanno già addobbato le vetrine con le decorazioni tipiche di questa ricorrenza, un contesto di allegria generale che, in qualche modo, riesce a contagiare anche me.
Mi rendo conto di non aver cenato ieri sera; succede molto spesso, ormai non ci faccio più caso. Mangio poco, non ho mai fame.
Mi alzo con riluttanza dal letto e apro il frigorifero. Avrei voglia di mandare giù qualcosa, ma il nodo che mi stringe lo stomaco me la fa passare in un soffio.
Il mio desiderio, adesso, è solo di uscire.
Indosso gli stivali da pioggia e mi precipito in strada con un unico intento: camminare sulle foglie secche, bagnarmi, sgomberare la mente da ogni pensiero. Solo così torno di nuovo a vivere, anche se soltanto per lo spazio di qualche ora.
Passeggiare per il centro è qualcosa che amo con tutta me stessa. C’è tanta gente in giro il sabato mattina, anime che si aggirano in silenzio per le strade protette da ombrelli colorati che sembrano quasi danzare nell’aria umida graffiata da minuscole goccioline di pioggia. Non mi dispiace affatto incontrare altre facce, vedere i sorrisi di chi incrocia la mia strada, sentire le chiacchiere delle massaie che discutono con vivacità dell’aumento dei prezzi della verdura e del pane.
Reggio Emilia è una città che adoro.
Roma invece la detesto con tutta me stessa.
Perché a Roma lui ha ucciso mio fratello.
Senza rendermene conto arrivo nella mia piazza preferita. Sta ancora scendendo qualche goccia di pioggia, ma decido comunque di sedermi su una panchina. Accanto a me c’è solo un signore anziano con un cagnolino, anziano anche lui, che scodinzola ogni volta che il padrone gli allunga un biscotto. Mi viene voglia di scambiare quattro chiacchiere con loro. «Carino il suo cane, come si chiama?» chiedo, avvicinando la mano per accarezzarlo.
«Si chiama Peperone. Il nome lo ha scelto la mia nipotina.»
«Be’, è un nome simpatico» sorrido sincera.
Coccolo Peperone, lui mi lecca la mano e mi fa le feste. Poi però torna al suo biscotto.
Sopraffatta da una profonda malinconia poso lo sguardo sulle fronde degli alberi intorno a me, sui meravigliosi colori autunnali delle foglie e quelli pastello delle case. Sono triste come sempre, ma anche stranamente serena. Le poche persone che passano di qui non mi danno alcun fastidio; sono discrete, parlano a bassa voce, alcune percorrono in tutta fretta la piazza lasciando dietro di sé i propri pensieri.
Percepisco tranquillità in questo momento. Tranquillità e silenzio.
Ne avevo un bisogno infinito.
Dopo aver controllato l’orologio sul polso il vecchietto si alza dalla panchina seguito dal cagnolino. Mi saluta con un gran sorriso che io ricambio, accarezzo Peperone per un’ultima volta e li osservo mentre si allontanano scomparendo piano nella foschia che avvolge la piccola piazza. Di nuovo sola chiudo gli occhi per lenire la malinconia che tormenta la mia giovane anima, ma una pesante goccia di pioggia, fredda e improvvisa, rimbalza sul mio viso ridestandomi dalle mie inquietudini. Seduto di fronte a me, adesso, c’è un ragazzo. Ha un album da disegno sottobraccio e una matita in bocca.
Lo osservo incuriosita, di nascosto.
La sua mano si muove decisa sul foglio bianco. Dalla mia posizione non riesco a capire che cosa stia disegnando di preciso, intravedo soltanto un oggetto, forse il ramo di un albero. Dopo aver scarabocchiato qualcosa di indefinito posa la matita sulla panchina e scruta il risultato del suo lavoro per qualche secondo. Poi solleva gli occhi verso di me e mi rivolge un sorriso.
Inaspettatamente gli sorrido anch’io.
Un attimo dopo si alza e se ne va.
Lo seguo con lo sguardo fino a quando scompare dietro un ampio colonnato inghiottito dalla lieve nebbiolina che avvolge la città.
Mi guardo attorno, non c’è anima viva.
Sono rimasta sola.
Il ticchettio cadenzato della pioggia sui rami è come una melodia che scuote l’imperioso silenzio che mi circonda. Assaporo per qualche istante ancora questo vuoto imponente, quest’agonia della natura che sembra piangere insieme con me, poi mi sollevo dalla panchina e raggiungo, senza comprenderne il motivo, la libreria del corso principale.
Rovistare fra gli scaffali ravvivati dai colori sgargianti delle copertine dei libri è qualcosa che riesce a distrarmi, a non farmi pensare. Mi soffermo a leggere qualche recensione, sfoglio il primo capitolo di un numero imprecisato di romanzi, di qualcuno apro una pagina a caso e sbircio le prime righe, ma non riesco a trovare nulla che faccia al caso mio. Annoiata e indolente salgo sbadigliando le scale che conducono al piano superiore e raggiungo la sezione di arte e cucina. Spostato più in là, sotto la finestra, un pianoforte a coda risplende sotto la tenue luce di una lampada. Sulle poltrone vicino alla cassa un uomo sta leggendo un quotidiano, poco distante una signora accompagnata dal suo cane chiacchiera in allegria con il librario, sul fondo due ragazzine sfogliano con avidità un libro fotografico sui gruppi pop americani.
A volte penso di aver sbagliato tutto nella vita; invece di finire in uno squallido ufficio avrei dovuto dedicarmi all’arte, forse alla scrittura. Mi piace guardare la gente, è qualcosa che faccio molto spesso. Osservo, esamino, cerco di entrare nella vita di ogni singola persona. Usando la fantasia provo a capirne i tratti salienti del carattere, immagino scene di vita, situazioni, vicende di cui potrebbero esserne protagoniste.
Ma la vita ha scelto per me e il mio sogno non si è mai avverato.
Non è vero che siamo noi gli artefici del nostro destino.
Alla fine, per quanto mi costi ammetterlo, è sempre lui a decidere per noi.
Accantono questi pensieri infelici e passo vicino al pianoforte. Se avessi avuto talento avrei studiato musica solo per avere la possibilità di comporre canzoni durante i miei momenti di tristezza, di solitudine profonda.
Invece sono una banale impiegata in un’agenzia pubblicitaria.
Questo dopo aver lasciato Roma con una laurea appena conquistata in tasca e, nel cuore, nella testa e nell’anima, la devastazione totale.
La mia passeggiata in libreria prosegue nel reparto di botanica. Mi avventuro tra gli scaffali, guardo un numero imprecisato di copertine, apro un libro a caso. Dicono che le piante, i fiori in particolare, siano in grado di curare la depressione. Quanto vorrei che fosse così anche per me…
Qualcuno si ferma al mio fianco in questo istante. È una presenza silenziosa, riservata, per nulla fastidiosa. Sbircio con la coda dell’occhio nella sua direzione; sta sfogliando un testo, le pagine scivolano lente fra le sue dita, si soffermano su un’immagine, infine continuano oltre. Scruto di sottecchi il suo volto e mi rendo conto di averlo già visto prima.
È il ragazzo di poco fa, quello seduto sulla panchina di fronte alla mia.
Il libro di botanica che stavo guardando è rimasto aperto su una pagina raffigurante un fiore di montagna. Fingo di leggere con interesse qualche riga della didascalia, ma i miei occhi ostinati non smettono un solo secondo di fissare lui. Lo osservo fino a quando ripone di nuovo il testo sullo scaffale. Poco dopo si strofina il mento con le dita, sul suo viso un’espressione di disappunto, infine si allontana.
Non so perché, ma mi viene voglia di seguirlo.
Nascosta tra gli scaffali lo osservo mentre scende le scale. Esco dalla libreria dietro di lui e mi avventuro lungo la via Emilia. Il ragazzo è davanti a me, cammina con estrema lentezza, ogni tanto si volta a guardare una vetrina, ma non si ferma mai. Tutto d’un tratto mi rendo conto di stare facendo qualcosa di stupido e mi fermo in mezzo alla strada.
«Devo essere impazzita…» mi dico ad alta voce, portando una mano alla fronte.
Guardo l’orologio, sono le dodici e mezzo passate. La gente affretta il passo, le strade cominciano a svuotarsi. Forse è il caso che rientri a casa anch’io; sì, ma per fare cosa?
Mangiare è l’ultimo dei miei pensieri.
Sento di desiderare ancora un poco di solitudine e così, dopo aver raggiunto la piazza adiacente, mi soffermo ad ammirare i giochi d’acqua della fontana, le coreografie coordinate dei suoi zampilli. Una visione quasi poetica che mi fa socchiudere gli occhi nel tentativo di assorbire meglio il suono ritmico dell’acqua che scorre sulla superficie. Sembra quasi una melodia, una musica antica e primordiale, un canto leggiadro che mi tiene compagnia.
Un rumore di passi mi risveglia di soprassalto da questo stato di temporanea estasi. Di fronte a me, per la terza volta, c’è il ragazzo della panchina.
Ci guardiamo imbarazzati, ma è lui il primo a sorridermi. Ricambio il suo saluto silenzioso e abbasso la testa, rossa in volto.
«Sto cercando l’ispirazione» dice a un tratto come per giustificarsi, senza smettere di sorridere.
«Sei un artista?» gli chiedo con curiosità.
«Qualcosa del genere.»
«Che cosa disegnavi prima? Sulla panchina intendo.»
«Scorci della piazza. Ho incluso anche te nel mio disegno, spero che non ti dispiaccia.»
«Me?» proclamo sorpresa. «No, per carità… Non sono un bel soggetto da riprodurre su carta.»
I suoi occhi si stringono in due fessure. Si avvicina fissandomi grave e mi porge il suo disegno. Spalanco la bocca sorpresa: sul foglio sono riprodotta io seduta sulla panchina, il viso coperto dal cappello, lo sguardo rivolto verso il basso. Attorno a me alberi che sembrano quasi fatati, gocce di pioggia che scivolano tra i rami, due uccellini in cerca di cibo.
«Come vedi non sei affatto male» dichiara convinto, notando il mio stupore e il mio più che evidente apprezzamento.
«Non mi si vede in faccia, ecco perché è venuto bene» la butto sul ridere.
«Non mi sarei mai permesso di riprodurre il tuo viso senza il tuo consenso. Sono un ladro di attimi irripetibili, non di anime.»
Lo osservo in volto, ha i lineamenti fini, gli occhi castani, i capelli scuri che gli ricadono sulla fronte. Inutile negarlo, la profondità della sua dichiarazione ha avuto un effetto quasi paralizzante su di me. Mi piacerebbe chiedergli il nome, ma mi manca il coraggio. Aspetto che si presenti lui, ma non sembra per nulla intenzionato ad approfondire la conoscenza.
«Ora credo proprio che me ne andrò a mangiare un boccone, mi è venuta una fame da lupi» mi dice subito dopo. «Ciao, buon pomeriggio» conclude infine, allontanandosi.
Resto come una stupida a osservare la sua figura che si allontana, un po’ mi dispiace che se ne sia andato. Stamattina, in fondo, lui è stato la mia unica compagnia.
Mentre sto percorrendo la strada che mi riporterà a casa passo davanti a un bar lungo la via Emilia. Un cartello affisso in vetrina suggerisce insalate accompagnate da focaccine calde per un pranzo veloce e salutare.
Decido inaspettatamente di entrare.
Mi rendo conto che è la prima volta dopo tre anni e mezzo che assaporo con gusto il cibo. Chissà, forse è stata la passeggiata di poco fa a farmi tornare la fame.
Al termine del mio frugale pasto mi muovo in direzione di casa mia. Sono le due del pomeriggio, fuori sta piovendo ancora e ora fa anche abbastanza freddo. Mi rifugio nel mio caldo e accogliente soggiorno e mi accoccolo sul divano con un plaid e una tazza di tè fumante tra le mani. Mentre osservo la pioggia avventarsi con energia contro i vetri della finestra ripenso ai bizzarri personaggi di stamattina: il vecchietto con il cane Peperone, il ragazzo del disegno…
La vita è proprio strana certe volte. Ti permette di incontrare persone che lasciano il segno, che ti trasmettono qualcosa nel profondo, che ti costringono a porti domande senza risposta. Persone con cui ti senti da subito in sintonia, che ti entrano nell’anima. Io, per esempio, non so spiegarmi il motivo per cui abbia sorriso a quel ragazzo, ma soprattutto perché abbia deciso di seguirlo per poi perderlo di vista e incontrarlo di nuovo davanti a una fontana. Non so il suo nome, non so chi sia, eppure mi ha incuriosito.
Lui è un ladro di attimi irripetibili.
E io invece che cosa sono?
Nulla. Io non sono nulla.
Sono solo una ragazza disperata in cerca di serenità.
Qualcosa che mi sarà impossibile raggiungere, perché non ho più mio fratello.